DEMOCRAZIA, LEGALITA', PROGRESSO

venerdì 22 novembre 2013

RIFLESSIONE (A FREDDO) SUL CONGRESSO DEL PD DI TORINO




Gli iscritti e le iscritte al Partito Democratico hanno inoltre il dovere di favorire l’ampliamento delle adesioni al partito e della partecipazione ai momenti aperti a tutti gli elettori”.

Statuto Nazionale del Partito Democratico, Comma 7, Lettera c.



Cari amici, care amiche,

con la celebrazione della prima assemblea provinciale, si può considerare conclusa la fase congressuale del PD di Torino, della Federazione Provinciale e dei suoi circoli. Durante la suddetta fase, ho accuratamente evitato di intervenire pubblicamente. L’ho fatto per senso di responsabilità, principalmente, essendo che i lavori congressuali si sono svolti in un clima quasi da “guerra fredda” che certo non incentivava (per non usare termini più incisivi) il desiderio di confrontarsi ed esternare la propria opinione, direi proprio il contrario. Il motivo per cui tale clima si è determinato è che non tutte le parti in causa hanno mostrato lo stesso senso di responsabilità del sottoscritto. Ebbene, ora che la tempesta è passata, ci terrei ad offrire anch’io la mia visione su quanto accaduto e proporre qualche considerazione.

Partirò proprio dall’uso delle parole. Purtroppo, la mia esperienza mi ha insegnato che nel nostro partito le parole vengono impiegate con una certa leggerezza e, soprattutto, spesso senza riguardo dei fondamentali della civiltà umana e politica. Spesso il confronto politico si riduce alle urla, alle interruzioni reciproche ed agli insulti, il tutto condito con la pesantezza del turpiloquio (espressioni come “mentecatto”, “spastico”, “scemo”, “cretino” o peggio, sono purtroppo all’ordine del giorno) e nessuno sente mai il bisogno di chiedere scusa. Mi domando se tutto ciò è compatibile con la denominazione di Partito DEMOCRATICO. Ed il clima in cui si è svolto questo congresso non può certo avere prescisso dalla pesantezza delle espressioni utilizzate da esponenti delle mozioni poi sconfitte, quali “Il golpe in baffi di sego”, “doping immorale”, “deliberatamente ingannato”, “si difenda da quella parte di sé che è talmente accecata dalla bramosia di potere da non farsi scrupoli nel calpestare regole, etica e rispetto della democrazia, distruggendo il PD e la sua immagine già incerta, pur di raggiungere il proprio risultato”, “dittatura di una falsa-maggioranza?”. Mi chiedo come queste persone, che sono quelle del “partito prima di tutto”, “bisogna difendere l’immagine del partito sempre”, “chi perde deve sostenere lealmente chi vince” giustifichino atteggiamenti di questo tipo. Ripeto, le parole sono pietre ed occorrerebbe riflettere seriamente sul senso di responsabilità individuale e su quali devono essere i limiti della civiltà umana e politica.

Ora, il tema sul quale sono giunte le polemiche più feroci è quella dei tesseramenti, cosiddetti, “last minute”, sui quali abbiamo dovuto tutti sopportare attacchi e frecciatine più o meno velate. Le cose che vorrei sommessamente osservare solo le seguenti

  1. Che sotto congresso ci sia un forte incremento del tesseramento è fisiologico ed è sempre accaduto in tutti i congressi. I “pacchetti di tessere” (qualunque cosa si intenda con tale termine) vi sono sempre stati ed, in passato, chi oggi sbraita ne ha usufruito pesantemente a suo vantaggio.
  2. Lo Statuto del Partito Democratico recita gli iscritti e le iscritte al Partito Democratico hanno inoltre il dovere di favorire l’ampliamento delle adesioni al partito e della partecipazione ai momenti aperti a tutti gli elettori”.
  3. TUTTI i candidati hanno, giustamente, cercato di ampliare la loro base di consenso in corrispondenza dei vari congressi.

Sulla base di tutto ciò, mi domando davvero di che cosa stiamo parlando. La strumentalità di certe accuse dovrebbe essere lampante.

Il problema vero è il substrato politico-culturale di chi, strumentalmente, lanciato determinate accuse.
Dovrebbe essere evidente come, una corposa frazione di partito e di gruppo dirigente disprezza, strumentalmente, le nuove adesioni, perché crede in un partito come una comunità ristretta, una sorta di tempio dell’ortodossia, dove tutti devono pensarla allo stesso modo e devono idolatrare i propria dirigenti, a prescindere dal merito. E’ uno schema che deriva dai partiti antenati del PD del ‘900 e che poteva forse funzionare per un partito condannato, inevitabilmente, ad essere sempre minoranza e a non governare mai. Questi difensori dell’ortodossia credono che il ruolo di un partito sia quello di riunirsi in circoli ristretti a discutere di massimi sistemi slegati dalla realtà della società, a distribuire volantini che, ahimè, la maggior parte delle persone getterà nella carta straccia (o peggio in terra) l’isolato a fianco, di custodire la verità assoluta, mentre tutto il resto del mondo (e dell’elettorato) non capisce la bontà dell’azione di un gruppo ristretto di dirigenti “eletti”.

Siamo proprio certi che un partito così concepito sia ancora in grado di svolgere la sua funzione di corpo intermedio tra i cittadini e le istituzioni?

Non ci viene forse il dubbio che la gente si iscrive sotto congresso, perché è convinta (a ragione) che sia l’unico momento in cui la sua tessera conti davvero qualcosa? Che con la sua iscrizione ed il suo voto possa contribuire realmente ad un nuovo progetto?

Non ci sfiora il pensiero che non sia l’iscrizione (ossia un passaggio formale) a determinare il senso di appartenenza, come alcuni sostengono? O che il grado e la forma di partecipazione non si misurino nel numero di volantini che si danno, dalla frequenza con cui si entra nella sede del circolo o nel numero di gazebo che si montano? Che il “partito” pesante degli iscritti non sia più il sistema per rappresentare la società?

Non pensiamo che, forse, il fatto che la gente si iscriva sotto congresso sia una segno di vitalità e di partecipazione e si tesseri perché convinta che sia l’unico modo di avere voce in capito? Che forse il fatto di fare l’"analisi del sangue” a coloro che chiedono di iscriversi, misurando (arbitrariamente) il loro grado di convinzione e talvolta respingendoli con motivazioni più o meno pretestuose, non sia il modo migliore per fare crescere il partito non solo numericamente, ma anche politicamente?

Siamo certi di non usare un po’ di ipocrisia nel dare patenti, nel dividere iscritti “buoni” da quelli “cattivi” sulla base di quanto partecipano alle attività, visto che normalmente circa un 10% (esperienza personale) degli iscritti dei circoli partecipano alle attività degli stessi? Di questo ci scandalizziamo solo sotto congresso?

E siamo infine certi che questo modo di concepire il partito non sia quello che ha prodotto una classe dirigente mediocre che ha causato una bruciante ed interminabile serie di sconfitte? Che quanto accaduto sia un indicazione del fatto che il sistema delle tessere è inadeguato e che la gente parteciperebbe più volentieri in altre forme? Non può essere che il diritto di elettorato attivo vada aperto a tutti e la tessera riservata per selezionare quello passivo?

La verità è che non vi è mai stato, in questo partito, un forte impulso ad incentivare il tesseramento, perché il nuovo iscritto è un potenziale pericolo per il mantenimento dello “status quo”. C’è un termine per definire questo atteggiamento, che non afferisce alla sfera della razionalità, ma a quella dell’emotività: paura!

Pochi ma buoni, essenza stessa dell’autoreferenzialità.

I cosiddetti “Signori delle Tessere” (a prescindere da che cosa si intenda esattamente con questa espressione) esistono in quanto esistono le tessere e non sarà chiudendo il tesseramento un mese prima od il giorno stesso del congresso a cambiare la situazione.

Ed allora, se i regolamenti permettono di iscriversi fino al giorno stesso del congresso, se è vero che lo Statuto del PD non solo permette, ma incoraggia gli iscritti ad aumentare il numero di adesioni, se è vero che iscriversi è l’unico modo per potere concorrere alla formazione dei gruppi dirigenti locali, non è forse non solo giusto ma DOVERSO, che coloro che nel partito sostengono una mozione, una piattaforma, una candidatura non compiano ogni sforzo per allargare la base del consenso su quella proposta, al di fuori del cerchio ristretto del partito, per sostenere un progetto politico (in qualunque modo questa espressione vada intesa)?

Quando ci sono le elezioni o le primarie, ci si ripete alla nausea che dobbiamo “parlare con tutti quelli che conosciamo”, rivolgerci alle nostre “reti di contatti” per convincerli a votare. Perché in un congresso bisognerebbe agire differentemente?

Qual è allora la differenza fra quelli che hanno votato ad ottobre e quelli che voteranno l’8 dicembre? Il solo fatto di spendere 18 euro in meno?

Non ci sembra vagamente artificioso, questo?

In una segreteria del mio circolo, poco meno di sette mesi fa, l’allora tesoriere affermò che il fatto che gli esponenti del circolo “portino un certo numero di nuovi iscritti” è “sano” perché “allarga la base degli iscritti” ed un autorevole (opinabile) membro di quella segreteria affermò che si chiama “proselitismo”. Questi signori hanno forse cambiato idea?

Qualcuno lo chiama “cammellamento”, io lo chiamo “consenso”, oppure, come sopra, “proselitismo” o ancora “capacità di comunicazione e convincimento” ed è uno dei meccanismi fondamentali su cui si deve basare la politica!

Proprio in questo senso, per rivoluzionare l’idea stessa di partito, nel termini che ho cercato di esplicitare, sostengo convintamente Matteo Renzi.

Eppure l’esito di questi congressi è incontrovertibile. In provincia di Torino vince nettamente Fabrizio Morri e sia su base provinciale che su base nazionale Matteo Renzi si afferma nei congressi di circolo (ossia quelli dove votano solo gli iscritti, secondo la mentalità di qualcuno, solo i veri militanti).

Ed allora, forse, si capisce perché alcuni cercando di buttarla nello “schifo” più totale. Sentono che il loro mondo sta crollando, non riescono ad accettarlo e soprattutto non riescono ad accettare di perdere le loro piccole e grandi quote di potere. Allora, cercano di delegittimare i vincitori, di parlare di “golpe”, di allontanare il maggior numero possibile di persone del voto del congresso nazionale (ma sembra che, fino ad ora, non vi siano riusciti), con accuse più o meno velate basate su argomenti inesistenti.

Ora, io per primo sono consapevole che lo svolgimento di questi congressi non sia stato del tutto lineare di episodi di malcostume e forzature siano avvenuti (tipo la negazione del diritto di voto ad alcuni che ne disponevano), alcune tali da avere pregiudicato l’esisto di alcuni dei congressi. Credo che questi episodi vadano contrastati e che si debba riparare al danno fatto.

Discorso totalmente diverso quello concernente il voto subordinato ad interessi di tipo economico o vincolato a rapporti di lavoro. Laddove l’iscrizione sia stata ottenuta in base a meccanismi di tale tipo, occorre agire con durezza, ma, per come la vedo io, queste sono questioni che attengono alla sfera giudiziaria più che a quella politica o del buon costume. Inoltre forse bisognerebbe porre maggiore attenzione alle persone che si propongono per ruoli dirigenziali (vedasi caso Iatì).

C’è però una importante lezione che, a mio parere, da questo congresso dovremmo trarre. L’articolo 49 della nostra Costituzione individua chiaramente nei partiti il mezzo con cui i cittadini possono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Eppure, a differenza di quanto accade in importanti democrazie Europee, come la Spagna, la Francia e la Germania, in Italia manca una Legge che dia attuazione a tale articolo, regolamentando, all’insegna della trasparenza, la vita interna dei partiti. Il nostro congresso ha mostrato tutta la debolezza di un sistema di autoregolamentazione dei partiti, in cui i soggetti che dovrebbero vigilare sul buon esito degli stessi sono composti da quelle stesse componenti che all’interno dei congressi concorrono. A mio parere i problemi che si sono evidenziati sono precisamente causati dalla mancanza di una legislazione che garantisca un’autorità terza che possa vigilare sul buon esito dei congressi. Credo che una Legge sulla Regolamentazione della vita interna dei partiti, non sia più rinviabile…
Non posso che concludere congratulandomi col nuovo segretario provinciale, con il nuovo presidente e la nuova segreteria ed augurando a tutti loro un buon lavoro.

R. C. G. Tassone

Membro dell’Assemblea Provinciale del PD di Torino 

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